Gli scomodi segreti sull’attentato a Papa Wojtyla. Le rivelazioni
Gli scomodi segreti. L’attentato a Giovanni Paolo II avvenne mercoledì 13 maggio 1981, ad opera di Mehmet Ali Ağca, un killer professionista turco, che gli sparò due colpi di pistola. Malgrado la perdita di tre litri di sangue (?) stia per provocare la morte per dissanguamento, il cuore regge. Molti gli aspetti a non far quadrare il cerchio. Il primo, il più evidente: può un killer di professione non centrare il bersaglio grosso da poco più di tre metri? Il trasporto del pontefice (ricordiamo in piena emorragia) fino al Policlinico Gemelli distante da Piazza san Pietro la bellezza di…e non nell’attiguo Ospedale di Santo Spirito in Sassia. Lo “sporco” incarico affidato ad un militante di estrema destra seppur turco; atto a confondere l’opinione pubblica mondiale. Con ogni probabilità agenti del controspionaggio americano vennero a conoscenza della trama del Kgb sovietico ( o furono questi ultimi a vendersi), il vero mandante del presunto omicidio per i chiari motivi storici dell’epoca. Il papa veniva ritenuto non a torto, la “marionetta” il passpartout in mano al progetto Cia, per scardinare il Muro di Berlino, e abbattere definitivamente il Regime Comunista sovietico. Missione poi portata a termine brillantemente. In tutte le foto scattate in Piazza San Pietro in Roma al momento dell’attentato non appare una sola goccia di sangue. Nelle immagini non si vede una goccia di sangue. A 35 anni di distanza molti si pongono la domanda legittima se l’attentato a Giovanni Paolo II sia stato vero oppure no.
Riceve l’unzione degli infermi dal segretario particolare, don Stanislao Dziwisz. L’anestesista gli toglie l’anello dal dito. Malgrado la perdita di tre litri di sangue stia per provocare la morte per dissanguamento, il cuore regge. […]. L’intervento è portato a termine con successo”. Agca è un terrorista professionista, noto alle polizie di mezzo mondo. È lì per assassinare il primo Papa in epoca moderna, vuole passare alla storia anche se, dietro di lui, c’è una trama di connivenze, aiuti dei servizi segreti dell’Est fiancheggiatori della peggior specie, pronti a vendersi l’anima a chi paga di più. Agca impugna una “Browning” calibro 9. Spara con precisione. Ma avviene il miracolo. Le pallottole trapassano il corpo del Papa ma non ledono gli organi vitali. Più tardi dirà: “Una mano ha premuto il grilletto, un’altra mano materna ha deviato lo traiettoria del proiettile. E il Papa agonizzante si è fermato sulla soglia della morte”. Giovanni Paolo Il è convinto che sia stata la Madonna a salvarlo: il 13 maggio è il giorno della prima apparizione della Vergine di Fatima nel 1917 ai pastorelli. Sabato 16 maggio registra, in sala di rianimazione al Policlinico Gemelli, la preghiera domenicale. La voce affaticata del Papa ferito viene diffusa domenica 17 maggio: “Prego per il fratello che mi ha colpito, al quale ho sinceramente perdonato. Unito a Cristo, sacerdote e vittima, offro le mie sofferenze per lo Chiesa e il mondo”. Il segno del sangue modifica anche la popolarità già immensa di questo Papa e lo fa come lievitare, immettendovi un elemento di maggiore profondità. Nella sofferenza si innesta la grazia della redenzione. Il dolore che salva. Il 13 maggio 2000 il Papa permette che si tolga il velo al segreto del secolo, alla “Terza parte del Segreto di Fatima”.
Quel “vescovo vestito di bianco che cammina fra i cadaveri dei carbonizzati e giunge ai piedi di una grande croce e cade a terra morto colpito da frecce e armi da fuoco” potrebbe essere proprio Giovanni Paolo II! Una profezia che accompagna le inchieste giudiziarie. Seguendo la “pista bulgara” si trovano i complici come Oral Celik, Omer Ay, Sedat Kadem. Un intrigo internazionale dai contorni ambigui e velenosi. Dimesso dal Policlinico Gemelli il 3 giugno, viene di nuovo ricoverato il 20 dello stesso mese per una grave infezione. Il 5 agosto i medici del Gemelli lo operano ancora. Dal 14 agosto al 30 settembre il papa trascorre la convalescenza a Castel Gandolfo. Due anni dopo, nel Natale del 1983, Giovanni Paolo II volle incontrare il suo attentatore in prigione e rivolgergli il suo perdono. I due parlarono da soli e gli argomenti della loro conversazione sono tuttora sconosciuti. Il papa disse poi dell’incontro: “Ho parlato con lui come si parla con un fratello, al quale ho perdonato, e che gode della mia fiducia. Quello che ci siamo detti è un segreto tra me e lui”. Tuttavia, Indro Montanelli riportò in seguito alcune parole che Giovanni Paolo II, durante una cena privata del 1986, gli riferì sull’episodio: “«Santo Padre», dissi, «lei andò a trovare in prigione il suo attentatore…». «Carità cristiana…». «Certo, carità cristiana. Ma che cosa riuscì a capire dei moventi e dei fini di quello sciagurato?». […] «Parlai con quell’uomo», disse, «dieci minuti, non di più: troppo poco per capire qualcosa di moventi e di fini che fanno certamente parte di un garbuglio… si dice così?… molto grosso. Ma di una cosa mi resi conto con chiarezza: che Alì Agcà era rimasto traumatizzato non dal fatto di avermi sparato, ma dal fatto di non essere riuscito, lui che come killer si considerava infallibile, a uccidermi. Era questo, mi creda, che lo sconvolgeva: il dover ammettere che c’era stato Qualcuno o Qualcosa che gli aveva mandato all’aria il colpo”. Giovanni Paolo non fece mai, né nel rievocare quell’episodio né in tutto il resto della conversazione, il nome di Dio o della Provvidenza. Disse soltanto: «Qualcuno o Qualcosa». Ma si sentiva benissimo che in quel Qualcuno o Qualcosa nessuno ci crede quanto lui. E aggiunse anche, con un sorriso: «Per di più, essendo musulmano, ignorava che proprio quel giorno era la ricorrenza della Madonna di Fatima…»”.