Tutti mentono su Mps. L’Italia perde un altro pezzo di storia. I retroscena

Tutti i protagonisti mentono. Accordo già concluso nelle segrete stanze del potere tra Renzi, Padoan, e Jp Morgan su Montepaschi. Non a caso, qualche giorno fa, la prima “banca” al mondo era presente al tavolo con il ministro Padoan, il  Presidente, e Ad per decidere le sorti della banca senese. Ma cosa ci faceva all’incontro Jp Morgan? E perché solo la potentissima banca americana? Semplice. Il 55% di Mps è in mano ai piccoli azionisti, i quali, nella stragrande maggioranza, non sottoscriveranno l’ennesimo aumento di capitale da 5 miliardi. Montepaschi, come emerso dal CdA, non è solo intenzionata a ricapitalizzare, ma a provare a coinvolgere gli obbligazionisti, con la conversione in azioni, sempre che la Consob accordi l’autorizzazione. E per la parte mancante  interverrebbe lo Stato. Ma non sarà necessario, giacché la Jp Morgan, è già in agguato pronta a fagocitare la terza banca italiana, la più antica al mondo. E per non far apparire l’ombra dei giochi già intrapresi sottobanco, si è provato a dar guappa, ossia, proroghe, e fantomatiche conversioni di obbligazioni. Poi, a tranquillizzare i mercati e gli obbligazionisti, ci ha pensato Padoan. È ipotizzabile che non saranno molti gli obbligazionisti ad accettare la conversione in azioni, poiché ci rimetterebbero l’osso del collo. Dunque, intervento pubblico di facciata, e accordo sottobanco con la Jp Morgan, a fungere da asse portante. Tradotto in termini pratici significa che lo squalo americano è destinato a far un sol boccone di Monte Paschi, come consuetudine sulla pelle dei piccoli azionisti che hanno visto bruciare il loro investimento, e che difficilmente rimetteranno mano al portafoglio.

Andiamo nei dettagli dell’operazione. La JP Morgan guidata in Italia da Guido Nola, con l’ex ministro Vittorio Grilli a capo dell’investment banking europeo, è ancora alla ribalta delle cronache finanziarie per essersi ritagliata un ruolo di primo piano nell’operazione di salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, non ancora conclusa e con una serie di ostacoli sulla sua strada. La discesa in campo è stata preceduta, come spesso accade quando in gioco ci sono banche di rilevanza mondiale, da un incontro a quattr’occhi tra il numero uno globale, Jamie Dimon, e il premier italiano Matteo Renzi, propiziata, si dice, da un altro banchiere di standing internazionale, Claudio Costamagna, presidente della Cassa Depositi e Prestiti. Un incontro fatale, dev’essere stato, poiché da quel momento Renzi ha abbandonato l’idea di intervenire con soldi pubblici nel capitale del Monte dei Paschi, per affidarsi mani e piedi alle cure della grande banca americana, chiedendo soltanto la presenza al suo fianco di Mediobanca. Il tandem stava già lavorando da un annetto con il Tesoro per negoziare con i riottosi uffici di Bruxelles della Concorrenza il tema della creazione di una bad bank in cui infilare i crediti deteriorati delle banche senza impattare sulla normativa per gli aiuti di Stato. JP Morgan e Mediobanca si sono poi inventate il meccanismo delle Gaacs, cioè le garanzie pubbliche sulle tranche di cartolarizzazioni, l’unico in grado di superare lo scoglio degli aiuti di stato. Uno schema poi trasferito sull’operazione Montepaschi dove JP Morgan si è detta disponibile a garantire una parte importante del bridge loan necessario per portare fuori dal bilancio della banca senese 10 miliardi di sofferenze nette. Poi, insieme a Mediobanca, ha formato un consorzio di pre-garanzia per un aumento di capitale da 5 miliardi in cui sono confluiti altri colossi come Credit Suisse, Bofa Merrill Lynch, Deutsche Bank, Santander. La partita che JP Morgan si sta giocando in Italia è dunque forse la più visibile di sempre, sia per le ricadute in termini di reputazione sia per il ritorno in termini di remunerazione (una stima un po’ grossolana indica in 500 milioni il monte commissioni che graverà sul bilancio Mps se verranno portati a termine prestito ponte e aumento di capitale). Più di una buona ragione per tagliare fuori l’advisor principale delle precedenti ricapitalizzazioni del Monte in cui la parte del leone la fece la svizzera Ubs. D’altronde, come sa bene il governo ma anche i regolatori europei, evitare un bail in del Monte dei Paschi è un obiettivo primario per non creare un effetto contagio sul sistema bancario italiano ed europeo. Che, come il fallimento di Lehman Brothers insegna, potrebbe avere costi esponenziali e ricadute pesanti per tutti i protagonisti.

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