Fs e Poste S.p.A.: lo smantellamento del servizio pubblico tra bilanci truccati, e matrioske
Fs e Poste SpA. La privatizzazione ha fatto seguito a quella delle ferrovie ripercorrendone in tutto e per tutto le medesime tappe. Tale decisione politica è stata determinata sostanzialmente dalla crisi economica che investe il sistema capitalistico da oltre un quarto di secolo, una crisi che si aggrava sempre più lasciando sempre meno margini di “manovra” a disposizione dello Stato. La caduta dei profitti ha imposto ai governi che negli anni l’hanno rappresentata di intraprendere la via delle privatizzazioni, smantellando lo stato sociale. Inoltre il contenimento del deficit pubblico, imposto dall’Unione Europea, non permette di appianare annualmente le svariate decine di migliaia di miliardi di passivo in bilancio delle grosse aziende pubbliche fra cui ferrovie e poste. Così queste aziende del pubblico impiego, che dal primo dopoguerra sino alla caduta della prima Repubblica hanno rappresentato per i partiti di governo un serbatoio elettorale di voti e strumento di controllo sociale, sono state ristrutturate e privatizzate adducendo esigenze di efficientismo e di modernizzazione. I disservizi derivanti da una gestione burocratica, incapace e corrotta, obbediente solo a logiche spartitorie e clientelari, hanno giustificato attraverso opportune campagne mediatiche l’esigenza di privatizzare.
Per quanto concerne le poste, le tappe della privatizzazione sono state sancite dai primi anni novanta, ma la lentezza nel perseguire gli interessi del capitale da parte dei boiardi di Stato che si sono avvicendati ai vertici dell’azienda, hanno costretto il governo D’Alema ad imprimere un’accelerazione nel processo di ristrutturazione/privatizzazione affidando l’incarico, con pieno mandato e con plauso anche dell’opposizione, ad un giovane e rampante amministratore delegato, Corrado Passera. Passera ha avuto quindi carta bianca nella gestione dell’azienda con un solo imperativo: togliere le poste italiane dall’assistenza economica statale nel più breve tempo possibile. Unica condizione dettata dal governo D’Alema è stata l’indicazione che i processi riorganizzativi non avrebbero dovuto fare ricorso a “licenziamenti massificati”.
La solerzia e la determinazione di Passera è racchiusa nel suo “piano d’impresa” che ha dettato le tappe del “risanamento” economico delle poste dal 1998 al 2001. La sua ricetta, oltre a comportare pesanti tagli di personale, considerata maggiore fonte di spesa, prevedeva di “scorporare” l’azienda poste in un molteplice numero di aziende minori, come una sorta di bambola matrioska. Lo scopo è quello di “lanciare” nel mercato le nuove aziende di servizio derivate dai servizi esternalizzati, in cui affluiscono tutti i profitti mentre i costi di gestione, le strutture, i macchinari continuano a gravare sulla azienda madre, le Poste S.p.A., che conseguentemente si avvita nella crisi. Attualmente le aziende esternalizzate e controllate da Poste Italiane sono: Poste Vita S.p.A., Sim Poste S.p.A., SDA Express Courier S.r.l., Bartolini S.p.A., Postecomm S.p.A., BancoPosta Fondi S.p.A. SGR, Postel S.p.A.
Ma nel breve periodo sono già previste nuove e molteplici altre società. I profitti delle suddette aziende, non essendo gravati dai costi derivanti dalla loro attività, di anno in anno aumentano. Il tutto al fine di rispettare il regolamento Consob, il quale prevede che un’azienda per quotarsi in borsa deve documentare un attivo di bilancio per almeno gli ultimi tre anni. Quindi dopo pochi anni queste “aziende satellite”, chiaramente con bilanci truccati poiché in essi non figurano i costi gestionali che invece vengono fatti confluire in Poste Italiane, vengono collocate sul mercato azionario, in Borsa, determinando un evidente fenomeno speculativo, sulle spalle dei lavoratori. La frammentazione delle poste in decine di aziende contribuisce a dare forte impulso alla precarizzazione del rapporto di lavoro, le aziende sinora create fanno largo uso di personale in nero o assunto a termine senza alcuna garanzia per i lavoratori. Attraverso le ingenti liquidità derivanti dalla vendita delle quote azionarie, spropositatamente alte rispetto al loro valore effettivo, si dovrebbero racimolare le plusvalenze necessarie per far fronte al “moncone” di azienda Poste rimasta, gravata da un rilevante deficit accumulato accollandosi tutti i costi gestionali delle aziende esternalizzate. Se anche questa “gestione economica” alquanto disinvolta non sortisse l’effetto desiderato, vi sarebbe sempre la carta di un’ulteriore smantellamento o addirittura il fallimento stesso di quel che rimarrà dell’azienda poste.
Questo è in sintesi il magnifico progetto aziendale di recupero economico e di privatizzazione di Passera e per questo remunerato, per quasi otto anni, con ottocento milioni di vecchie lire l’anno. Ma alla descrizione, in estrema sintesi, della condizione economica delle poste bisogna aggiungere le conseguenze subite dai lavoratori postali. Dal 1992, data in cui è cominciata la dismissione da parte statale delle poste, ad oggi è stato un continuo aggravamento delle condizioni di lavoro all’interno di tutti i settori di lavorazione postale. Negli ultimi anni per rispettare le tappe forzate del “risanamento” i lavoratori postali hanno conosciuto un peggioramento delle condizioni di lavoro e di aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro, degli infortuni, anche mortali di cui due casi a Venezia, di negazione dei propri diritti più elementari (ferie negate, minacce di licenziamento), e perseguiti in maniera pianificata con l’attuazione di mobbing diffuso. Negli ultimi quattro anni il personale delle poste è passato dalle 185.000 unità del 1998 alle attuali 163.000 unità con una perdita di 22.000 posti di lavoro. Oltre al blocco del tour over ed alla eliminazione dei lavoratori trimestrali vi sono stati migliaia di dimissioni “spontanee” incentivate dal pesante carico lavorativo conseguente al taglio del personale. In questa situazione il sindacalismo confederale CGIL, CISL e UIL è sostanzialmente ostaggio degli organismi politici amministrativi dell’Azienda. Il consiglio di amministrazione di Poste Italiane S.p.A. è infatti formato da esponenti politici sia della maggioranza (centrodestra) che dell’opposizione (centrosinistra) i quali convergono negli interessi strategici aziendali.
Per questo motivo, prima che scoppiasse lo scandalo, Passera ha lasciato la mano al nuovo amministratore delegato, Massimo Sarmi, che all’indomani della sua nomina ai vertici si è triplicato lo stipendio rispetto alla già stratosferica retribuzione di Passera (850 milioni annui). Nel 2001 l’azienda, in forte ritardo sulle tappe del risanamento economico, ha unilateralmente proclamato lo stato di crisi, potendo così derogare, nella gestione del personale, alle norme contrattuali e di legge, e minacciando 8000 esuberi di personale con lo scopo evidente di far passare un provvedimento capestro per i lavoratori il “Fondo di solidarietà”. Il Fondo di solidarietà, della durata di 10 anni, altro non è che un progetto aziendale per “svecchiare” il personale occupato e sostituirlo con personale precario, in apprendistato, sotto i 24 anni di età, a contratto triennale pagandolo il 70% del minimo tabellare contrattuale. In sostanza, vengono mandati anzitempo in “pensione” con una sorta di “accompagno economico” lavoratori vicini all’età pensionabile per assumere al loro posto altri lavoratori che percepiranno il 70% dello stipendio, mentre l’azienda riceve altre agevolazioni statali sul piano contributivo per i nuovi assunti. Da calcoli effettuati, si ottiene il risultato seguente: con la corresponsione economica di uno stipendio attuale, in futuro l’azienda poste potrà stipendiare due lavoratori assunti in apprendistato, abbattendo il costo del lavoro del 50% e introducendo ulteriori elementi di ricatto derivanti dalla precarizzazione del rapporto di lavoro, infatti alla scadenza triennale del contratto in apprendistato non vi è alcun obbligo da parte aziendale di trasformare il rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato. Il fondo di solidarietà è un fondo a costo zero per l’azienda in quanto esso è costituito da una quota di contributo statale e una quota prelevata dalla busta paga dei lavoratori in servizio, serve a pagare gli stipendi mensili dei lavoratori postali che “volontariamente” decidono di aderirvi sino al momento in cui essi riceveranno la pensione vera e propria, di regola uno o due anni, ma la pensione percepita subirà una flessione in percentuale.