Le banche italiane dai piedi d’argilla. Parola di Moody’s (troppe sofferenze)

Nel sistema bancario italiano a fine 2016 vi erano crediti problematici pari a 349 miliardi lordi, lo stock più alto d’Europa, pari al 17,3% di tutti i crediti erogati, più del triplo rispetto alla media europea, che si attesta al 5,1%.

 di Roberto Casalena

Dunque, prestiti che le banche non riescono più a recuperare dai loro debitori, a fronte dei quali le stesse banche hanno accantonato in bilancio perdite per il 55-60%. Dunque le sofferenze nette sono inferiori valutate al 40-45% del loro valore nominale. Ecco, quando a fine novembre 2015 Banca d’Italia ha disposto la risoluzione delle famose quattro banche, Pop Etruria, CariFerrara, CariChieti, Banca delle Marche, le sofferenze di questi istituti sono state svalutate fino al 18% del loro valore e questa percentuale ha fissato il punto di riferimento (benchmark) per le valutazioni di tutte le altre banche da parte di analisti finanziari e investitori. Quindi, molto presto gli istituti di credito dovranno mettere mano al portafoglio per robuste ricapitalizzazioni per coprire in parte il denaro mancante , causato appunto dalle sofferenze, ed altresì cercare di vender alla svelta gli Npl, cioè i prestiti problematici.

Inoltre c’è anche il rischio che dovendo potenziare le riserve, gli utili si riducano. Un quadro tutt’altro che roseo, tant’è che l’agenzia di rating Moody’s, non a caso ha lanciato il monito verso gli istituti di credito italiani che sono sotto pressione per smaltire gli Npl, in un contesto di redditività ancora debole e con un’esposizione significativa sui titoli di Stato. Occorre ammettere che nel corso del 2016 i banchieri italiani non hanno fatto molto per rassicurare i mercati finanziari, anzi hanno peggiorato la situazione.

Prendiamo qualche caso concreto, partendo dalla fusione tra Bpm e Banco popolare, la prima operazione nata sulla scia del decreto governativo del gennaio 2015 che obbliga le banche popolari a trasformarsi in società per azioni. La banca veronese guidata da Pier Francesco Saviotti ha in pancia una quantità di sofferenze non banale, con un Texas ratio (rapporto tra crediti deteriorati e patrimonio più accantonamenti) che a fine 2015 arrivava a 158, più elevato di Mps (147), mentre la Bpm è molto più virtuosa sotto questo profilo, essendo a quota 87. Prima di unirsi in matrimonio la Banca centrale europea ha dunque obbligato il Banco a lanciare un aumento di capitale da un miliardo, in seguito al quale l’azionariato della nuova banca è stato suddiviso in 54% (soci del Banco), 46% (soci della Bpm). Ma il mercato ha fin da subito cominciato a scontare il fatto che la nuova banca ha bisogno di un altro aumento di capitale affossandone il corso dei titoli in Borsa. Ma anche Victor Massiah, ad di Ubi Banca, ha molto da farsi perdonare.

Nonostante la banca, con solide basi tra Bergamo e Brescia, abbia indici patrimoniali soddisfacenti, Massiah è riuscito a far trascinare Ubi nel gorgo della speculazione di Borsa associandola al salvataggio di Mps. Quando il Tesoro chiese a Massiah e Castagna di unirsi per salvare il Monte, il banchiere di Bpm ha prontamente declinato l’invito mentre quello di Ubi ha creduto nel progetto a tre salvo poi comprendere l’impossibilità della sua realizzazione. Ma nel frattempo il mercato ha avuto buon gioco a buttare giù il titolo nel timore che Ubi volesse marciare da sola verso Siena. Poi, non contento di questa performance, Massiah ha risposto al nuovo appello di Bankitalia per evitare che le quattro banche salvate finissero nelle mani dei fondi avvoltoio per pochi euro. Così Ubi ha presentato un piano per accollarsele a prezzi vantaggiosi. E il titolo Ubi è andato giù ancora, reagendo alla notizia.

Che dire poi di Unicredit. Per almeno un anno e mezzo, e cioè fino al giugno 2016, l’ex amministratore delegato Federico Ghizzoni non ha fatto altro che ripetere al mercato e alle autorità che la banca non aveva alcun bisogno di un aumento di capitale. Ma quando gli azionisti si sono infine decisi a dare il benservito a Ghizzoni affidandosi alle cure di Jean Pierre Mustier, il mercato ha scoperto che in realtà l’aumento di capitale ci sarebbe stato ed anche molto oneroso. E come poteva reagire il titolo in Borsa a una notizia del genere, per di più associata al fatto che occorre svalutare pesantemente i 57 miliardi di sofferenze lorde che sono ancora in pancia a Unicredit? Male, ovviamente.

Se poi si aggiunge:

Che Veneto Banca e Popolare di Vicenza sono state salvate dal fondo Atlante in quanto non sarebbero riuscite a mandare in porto i rispettivi aumenti di capitale, ma che è molto probabile servano altre risorse fresche da iniettare.
Che la Carige ha respinto un’offerta del fondo Apollo di acquisto di sofferenze e contestuale ricapitalizzazione poichè il principale azionista della banca, la famiglia Malacalza, non voleva farsi prendere per il collo e alla bisogna ha le risorse per far fronte a un aumento di capitale.
E che il Monte dei Paschi, terza banca italiana in forte difficoltà, è sulla graticola per un piano di rafforzamento del patrimonio da 5 miliardi ben si comprende che i banchieri italiani e l’Abi possono anche gridare al mondo che il sistema bancario italiano è sano e che i fondi stranieri speculano sulle sofferenze italiane.
Ma il ministro dell’Economia Padoan non ci sta e rileva che da inizio 2017 lo stock delle sofferenze è calato del 25%, sottolineando che il quadro dipinto da Moodys è “ un’immagine che non rispecchia la realtà”. Intanto Renzi ha acceso la miccia per non far rinominare Visco a Governatore di Bankitalia, ritenendo forse che ha vigilato poco e male.

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