Fa più guasti l’economia o la politica ? I disastri dei saldi delle partecipazioni statali
Anche se non vorremo farci ulteriormente fregare abbiamo sempre meno tutele.
Siamo nelle mani di coloro che controllano l’ economia la finanza l’informazione ed abbiamo politici che una volta assunto un potere anche piccolo si preoccupano soltanto di conservarlo ed antepongono questa paranoia a qualsiasi etica
Rinunciano spesso alle battaglie ideali per paura di perdere il consenso preferiscono il compromesso. La politica di fatto e arte della mediazione e del compromesso
Per noi che i compromessi non li amiamo e che vorremmo un cielo limpido quando é sereno e le nuvole quando piove ,forse l unico possibilità che abbiamo è quella di affidarci al Padre Eterno
Non c’è governo che non ci illuda promettendoci che stiamo uscendo dalla crisi economica. Non c’è governo che non inventi qualche forma di imbonimento per accattivarsi il consenso dei creduloni: ottanta euro, reddito di cittadinanza. Mancano le fondamenta di un sistema economico e produttivo e gli unici che se ne rendono conto è se ne dolgono, sono coloro che esercitano una libera attività.
Ma se tutto va male come facciamo a resistere?
Ci culliamo nei privilegi che la natura ha donato alle nostre terre e nella energia del sole del mare del vento. Ma stiamo facendo di tutto per distruggere anche quelle risorse.
Non abbiamo costruito ne infrastrutture ne opere pubbliche nel frattempo mettiamo al bando le carrozze con i cavalli dal centro storico di Roma. Certo questo è segno di progresso come l’essere sepolti dalla immondizia ed essere assediati dai ratti e dai gabbiani. Abbiamo dissuaso ogni tipo di investimento nelle attività produttive e nel turismo. Dopo le migliaia di cartelli che indicano l’auditorium e dopo le orrende baracche costruite per il Giubileo presso le basiliche Romane non abbiamo costruito nulla di utile. Avremo potuto ad esempio costruire accoglienti vespasiani visto che abbiamo tanti immigrati senza dimora che la fanno per strada o tanti anziani che malati di prostata fanno la stessa cosa. In compenso abbiamo l’auditorium. Il maxi, il macro, il centro congressi con la sua nuvola, la nuova teca dell’ara Pacis ,che vogliamo di più. Stiamo perdendo le grandi aziende. Abbiamo iniziato svendendo per due soldi le industrie che erano state finanziate a partire dal 1947 con il FIM Finanziamento all’industria meccanica.
A partire dal 1992 ci siamo venduti tutto, partecipazioni statali, Ferrovie dello Stato, Poste, Autostrade.
Abbiamo iniziato con la dismissione del Patrimonio immobiliare pubblico.
Un grande liquidatore è stato Prodi, quello che facendoci adottare l’euro come moneta unica ad un cambio iniquo ci ha tolto la lira facendoci perdere subito
metà del valore del potere di acquisto dei nostri stipendi, dei nostri salari, delle nostre rendite.
Prodi, Bassanini, Monti, grandi traditori del popolo.
Privatizzazione,
quando e come è iniziata la (s)vendita del patrimonio pubblico
All’indomani
della svalutazione del 1992 iniziano i nuovi saldi del patrimonio
pubblico. Multinazionali angloamericane, ma anche francesi, arrivano
in Italia per “fare shopping”: vanno in cerca di società,
specialmente agroalimentari e di meccanica di precisione. Italgel,
per esempio, viene alla Nestlè a 680 miliardi di lire contro una
valutazione di 750. Ma anche i giganti italiani guadagnano dallo
smembramento del patrimonio nazionale: il gruppo Benetton si
aggiudica per 470 miliardi GS Autogrill che poi rivende ai francesi
di Carrefour GS per 10 volte tanto. Poi fagocita la rete autostradale
usando la leva finanziaria, si indebita per acquistarla e poi scarica
il debito sulle autostrade, naturalmente si guarda bene dal vendere
l’impresa perché genera proficui profitti, specialmente mantenendo
la manutenzione a livelli bassissimi.Vengono privatizzate totalmente
Telecom, parzialmente Enel ed Eni. Molte di queste aziende, fino ad
allora considerate all’estero concorrenti temibili, subito dopo
l’acquisizione vengono smembrate o comunque messe in condizione di
non nuocere. Dal 1992 al 2002 il Tesoro ha “effettuato direttamente
operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6
miliardi di euro. A questa cifra vanno però aggiunte le
privatizzazioni gestite dall’Iri (sempre sotto il coordinamento del
Tesoro), per un controvalore di circa 56,4 miliardi di euro, le
dismissioni realizzate dall’Eni (5,4 miliardi di euro) e la
liquidazione dell’Efim (440 milioni di euro). Si tratta di cifre
molto consistenti, da cui è facile intuire il valore e l’importanza
dei beni venduti, o per meglio dire.
Per capire quanto valgono
questi stessi beni che non ci appartengono più possiamo comparare
gli incassi delle privatizzazioni con i valori attuali. Nel 1992 la
cessione del 58% del Credito Italiano produce ricavi lordi per 930
milioni di euro, nel 2002 Unicredito Italiano capitalizza 26.593
milioni di euro. Tra il 1994 e il 1996 la cessione del 36,5% dell’Imi
rese 1125 milioni di
euro, le successive tre tranche, pari al 19%
e al 6,9%, rispettivamente 619 e 258 milioni di euro, nel 2002
Imi-Sanpaolo capitalizza 16.941 milioni di euro. Un caso a parte è
poi rappresentato dal Banco di Napoli: quel 60% che lo Stato vende
alla Bnl per 32 milioni di euro (una volta ripulito delle perdite e
dei crediti inesigibili con 6200 milioni di euro di denaro pubblico),
è rivenduto dalla Bnl, a distanza di pochi anni, per 1000 milioni di
euro. È anche vero che la BNL lo ha risanato completamente, ma la
differenza tra i due valori è enorme.
In ogni caso perché questo
risanamento non poteva avvenire per mano dello Stato? Perché chi lo
dirigeva non era all’altezza? Non è così, e ce ne accorgeremo più
avanti. Alle cifre di vendita da parte del Tesoro vanno aggiunte le
commissioni per i collocatori di borsa, banche che compongono il
sindacato di collocamento e altri consulenti, così come le spese di
registrazione e listing sui mercati azionari, spese per adempimenti
Consob, Sec eccetera. Questi costi nel corso degli anni sono
diminuiti ma si aggirano comunque tra il 2% e il 3% dell’ammontare
totale del ricavato. Una fetta consistente di questo denaro, circa
l’1%, l’hanno poi incassata le maggiori investment bank
anglosassoni, come J.P. Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit
Suisse, First Boston, Merrill Lynch e così via, per la loro attività
di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio neanche
un dollaro. E senza dover neppure sostenere una gara pubblica per
l’affidamento dell’incarico.
La seconda fase del processo
di privatizzazione riguarda invece le banche di diritto pubblico, e
include la privatizzazione de facto della Banca d’Italia, i cui
azionisti fino ad allora erano banche italiane di diritto pubblico.
Dal 1992 la proprietà passa nelle mani di privati spesso addirittura
esteri, che hanno rilevato quote sostanziose delle banche italiane
come Bnp Paribas, Crédit Agricole, Banco Bilbao, Allianz eccetera.
Il tutto in palese violazione dell’articolo 3 del vecchio statuto,
sostituito soltanto nel 2006. Le conseguenze più importanti di
questa decisione riguardano la creazione di moneta, che dalle mani
dello Stato – cioè noi cittadini – passa a quelle di soggetti
esteri.
A questi ultimi viene virtualmente ceduta una fetta della
nostra sovranità nazionale. Chi produce il denaro è una casta di
banchieri, anche stranieri, che ce lo presta a un tasso d’interesse
variabile, a seconda della fiducia che il mercato ripone nei nostri
confronti. E questo denaro viene creato dal nulla. Non c’è
qualcosa di assurdo nel fatto che questa situazione sia considerata
migliore e più moderna del vecchio modello dove Tesoro e Bankitalia
appartenevano allo Stato? Com’è possibile che ci si fidi più di
forze commerciali di mercato straniere che del nostro
governo?
Completate le privatizzazioni comincia il gioco delle
sedie: alcuni personaggi chiave lasciano il settore pubblico e vanno
a lavorare per le grandi banche che hanno guidato la vendita del
patrimonio nazionale sul mercato. Mario Draghi diventa vicepresidente
della Goldman Sachs e Vittorio Grilli – ai tempi vicedirettore
generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni, viene assunto al
Credit Suisse. Ma se costoro erano tanto bravi da essere chiamati
dalle più grandi banche d’affari mondiali “i maghi della
ristrutturazione delle imprese pubbliche”, allora perché non si
sono rimboccati le maniche e queste metamorfosi le hanno fatte in
casa, con gli stipendi dello Stato?
Dal libro Democrazia vendesi. Dalla crisi economica alla politica delle schede bianche(Rizzoli, 2014)